Mio fratello è figlio unico... una riflessione sul tipo di comunicazione che avviene in classe quando si fa matematica

 

Mio fratello è figlio unico è il titolo di una importante canzone di RinoGaetano, lo sappiamo tutti. 
Il titolo è geniale perché in 5 parole comunica un messaggio paradossale e divertente.
Infatti chi comunica il messaggio, evocando il fratello, lascia capire che i propri genitori hanno almeno due figli: chi parla e il fratello di chi parla. Tuttavia un figlio unico, per definizione, è una persona che non ha fratelli. Ecco dunque che la frase diventa assurda.

Proviamo adesso a ribaltare la situazione ponendoci dal punto di vista dei genitori.
Supponiamo che io abbia cinque figli e dica: “ho tre figli”. In tal caso, analizzando la frase, sto mentendo?
Dipende…
All’interno di una conversazione “normale” starei evidentemente mentendo o scherzando o, ancora, probabilmente starei comunicando per sottointesi.
Si suppone che in una conversazione gli interlocutori collaborino nel dare senso a ciò che si dice. Come quando si chiede: “La cugina di Mario è carina?” e poi ci rispondono: “...è simpatica”. Da un punto di vista  logico la risposta non è pertinente ma tutti capiamo.
La comunicazione, specialmente quella informale, dunque raramente si basa sulle regole di inferenza logica e di non contraddizione.
La comunicazione di tipo matematico è diversa. L’affermazione da cui siamo partiti - “ho tre figli” - pur non essendo certamente cooperativa, non è assolutamente errata, anche nel caso io abbia cinque figli.
Se ho cinque figli, a maggior ragione ne ho certamente tre. Ma ne ho anche due di figli… e anche uno, quattro e cinque. In tutti questi casi non sto mentendo. Certamente non posso dire che ho sei figli.
Molti problemi degli studenti nell’affrontare la matematica nascono proprio nell’uso specifico della lingua madre all’interno del contesto matematico.

Ma, diranno molti, quando mai, durante le ore di lezione di matematica, i docenti sottopongono i propri studenti a tali assurdi tranelli?
Più spesso di quanto si possa pensare.
Due esempi, uno alla secondaria e un altro alla primaria.
Studiando le disequazioni, capita di pervenire ad un risultato del tipo 3>=2.
Gli studenti (e le persone normali, coloro cioè che usano una formulazione del linguaggio non esclusivamente matematico) si chiedono molto spesso: che senso ha una scrittura del genere? Non si farebbe prima a scrivere 3>2?
Eppure il professore pretende questo tipo di scrittura e, tutto soddisfatto, emette per giunta la sentenza: la “condizione è soddisfatta”.
In questo caso, lo ammetterete, la comunicazione del professore non è per nulla collaborativa, piuttosto assolutamente formale. Se anche lo studente avesse capito il concetto (come diciamo spesso noi prof…), la condizione  richiesta del docente di utilizzare un linguaggio del tutto lontano da quello quotidiano (preciso e sintetico ma - ripeto - assolutamente non collaborativo) potrebbe confondere e fiaccare lo studente.
Così come quando si mostra un quadrato ad un bambino e si chiede: “è un trapezio?”. E lui, sicuro, risponde: “no, è un quadrato!”.
Di nuovo, se parlando informalmente il bambino ha pienamente ragione, dal punto di vista matematico il quadrato è anche un trapezio. Infatti il trapezio, per definizione, è un quadrilatero con almeno due lati tra loro paralleli. E il quadrato, in effetti, due lati tra loro ce li ha davvero quindi è anche un quadrato (3 maggiore uguale 2… ricordate?).

Insomma… mio padre potrebbe tranquillamente dire: i miei due figli sono figli unici…


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